Based in Sydney, Australia, Foundry is a blog by Rebecca Thao. Her posts explore modern architecture through photos and quotes by influential architects, engineers, and artists.

Riconoscimento di facce a distanza

Riconoscimento di facce a distanza

La distanza da cui si assiste ad un evento è un altro fattore da tenere presente quando si chiede ad un teste di effettuare un riconoscimento.  Loftus e Harley (2005) hanno descritto un caso, avvenuto in Alaska, in cui il testimone ha dovuto compiere un riconoscimento all’americana dopo aver assistito ad un crimine a 137 metri di distanza. E’ inutile dire che  maggiore è la distanza, più piccola è l’immagine retinica di ciò che vediamo, e questo va a scapito di dettagli che sono indispensabili per poter riconoscere una persona (tanto più se non nota).

L’effetto della distanza sul riconoscimento di volti è un settore di indagine che si presta bene a ricerche empiriche e quindi su questo argomento si sa molto. Wagenaar e van der Schrier (1996) In uno studio del 1996, Wagenaar e van der Schrier (hanno preliminarmente sottoposto ai partecipanti le fotografie di alcuni volti (non noti) di diversa dimensione riproducendo, così, una scena di osservazione di un soggetto a diverse distanze (3–40 m).  Successivamente ai partecipanti veniva chiesto di identificare la persona vista poco prima tra 6 persone in un classico line-up fotografico (photo-lineup). Ciò che è emerso è la ovvia conclusione che il riconoscimento era inversamente proporzionale alla distanza da cui era stato visto il volto. Ovvero, al crescere della distanza, il riconoscimento risultava essere significativamente peggiore. Sulla base di questa ricerca gli autori hanno messo a punto delle raccomandazioni forensi da usarsi in sede di valutazione della testimonianza. La conclusione a cui gli autori sono giunti è che il riconoscimento poteva considerarsi soddisfacente, in termini di accuratezza, solo se la distanza tra “testimone” e faccia da riconoscere era minore di 15 metri (adottando un livello di illuminazione della scena pari ad almeno 15 lux).

Sulla base di questi risultati gli autori hanno quindi avanzato una “regola forense” particolarmente accreditata e che da allora è chiamata “regola del quindici” (“Rule of Fifteen”, Wagenaar e van der Schrier, 1996, p. 86) come indicazione da utilizzare in ambito processuale. Tale dato, secondo gli stessi autori, suggerisce che “distances of greater than 15 m should be considered as too far to support an eyewitness identification beyond reasonable doubt” ovvero che una distanza superiore a 15 metri dovrebbe essere considerata inadeguata a supportare oltre ogni ragionevole dubbio un’identificazione basata su una testimonianza oculare.

Lindsay e collaboratori (2008) hanno raccolto i dati su più di 1300 osservatori andando a verificare come la distanza tra testimone e soggetto da riconoscere potesse influenzare non solo l’accuratezza dell’identificazione ma anche la stima di parametri utili all’identificazione stessa (peso, altezza età), a diverse distanze. In questo lavoro, i partecipanti assistevano ad una scena reale in cui un soggetto che poteva essere posizionato a diverse distanze usciva da un nascondiglio mostrandosi per alcuni secondi. Successivamente veniva chiesto di stimare peso, altezza ed età del soggetto e di giudicare se fosse identificabile tra i soggetti mostrati in alcune fotografie (line-up fotografico). L’accuratezza delle stime e dell’identificazione poteva essere verificata subito dopo l'evento o a distanza di tempo dall’evento (24 ore). Ad esempio, a 20 metri di distanza è stata rilevata una percentuale di identificazione corretta (di volti noti) pari al 38%. Si noti che la “distanza dall’evento” considerata in questo studio era pari a sole 24 ore. Questi dati dimostrano come l’accuratezza nell’identificazione di un volto, a più di 20 metri di distanza, sia molto scarsa (Lindsay et al., 2008) e questo è ancora più importante se teniamo presente che la ricerca è stata condotta in condizioni di illuminazione ottimali.

In questa ricerca, oltre all’analisi relativa alla identificazione delle facce in funzione della distanza in questa ricerca è anche stata indagata l’accuratezza nella descrizione di alcuni attributi come altezza, peso ed età del soggetto (ad esempio “la figura che ho visto è quella di un uomo di circa 6 anni alto 1.80 mt e del peso di circa 80 chili”). Gli autori, per quanto riguarda l’accuratezza nella descrizione di questi attributi riportano i seguenti risultati:

- l’accuratezza della stima dell’altezza di un target a una distanza superiore a 20 metri non superava il 60%, anche considerando criteri molto elastici di attribuzione di una risposta corretta

- l’accuratezza nello stimare il peso posto a una distanza superiore a 20 metri era pari a circa il 60% (risultato usando una approssimazione di 10kg);

- l’accuratezza della stima dell’età di un target a una distanza superiore a 20 metri era pari a circa il 43% (risultato usando un’approssimazione di 10 anni).

In pratica, questi dati indicano che un soggetto di 50 anni, 90 kg e alto 1.80 m potrebbe venire descritto, se visto ad una distanza superiore a 20 metri, come un soggetto di 40 anni, di 100 kg e alto 1.70 m. Quindi questa ricerca dimostra che due figure umane caratterizzate da corporature molto diverse possono essere descritte in maniera molto simile se vi è un certo grado di distanza tra testimone e soggetto che deve essere riconosciuto (almeno 20 metri).

Lo studio di Horry e collaboratori (2014) consiste in una ricerca retrospettiva su casi giudiziari reali che ha analizzato dati di 833 casi giudiziari reali caratterizzati dalla presenza di un testimone oculare chiamato ad identificare il presunto autore di un reato. In 588 di questi casi, vi erano successive evidenze circa l’effettiva colpevolezza del sospettato. Questi autori hanno considerato come possibili fattori influenti sulla testimonianza, non solo la distanza dal target ma anche la durata dell’evento al quale il testimone ha assistito e la sua età. Per quanto riguarda la distanza tra testimone e soggetto da identificare, gli autori hanno trovato come la probabilità di identificare correttamente i sospettati fosse meno probabile quando l’autore del reato veniva visto ad una distanza superiore a 5 metri (25.93%) rispetto a quando era visto a meno di 5 metri (55.91%) o in una situazione faccia a faccia (59.77%). Da notare come la proporzione di identificazioni corrette ad una distanza superiore a 5 metri fosse molto bassa (circa il 26%) e come, nonostante tale proporzione raggiungesse il proprio massimo nella situazione faccia a faccia, essa era comunque inferiore al 60%. Questi dati, che sintetizzano una ricerca sul campo, sono in linea con gli studi controllati effettuati in laboratorio relativamente alla percezione dei volti. Questi ultimi suggeriscono che “our ability to recognize familiar faces drops sharply after distances of about 7.5 m, approaching zero by around 33.5 m”, ovvero la nostra abilità di riconoscere volti familiari cade bruscamente con distanze superiori a 7.5 metri, avvicinandosi allo zero intorno a 33.5 metri (G. R. Loftus & Harley, 2005).

E’ stato dimostrato che nella percezione e nel conseguente riconoscimento di volti, un processo fondamentale è l’abilità di analizzare in maniera olistica, quindi nel suo insieme, le caratteristiche del volto. McKone (2009) dimostra come tale abilità ha il suo picco tra 2 e 10 m, peggiorando in maniera repentina per distanze superiori a 10 m.

Oltre alla distanza tra testimone e persona da identificare, un’ulteriore variabile da considerare sono le condizioni di illuminazione che caratterizzano l’ambiente nel quale avviene la scena a cui assiste il testimone. Si tenga presente, infatti, che negli articoli scientifici sopra descritti l’illuminazione utilizzata era pressoché ottimale (luce del giorno) o comunque pari ad almeno 15 lux (a parte la ricerca d’archivio). La relazione tra accuratezza dell’identificazione e la combinazione di distanza e illuminazione è stata indagata da un altro studio (De Jong et al., 2005) . Gli autori hanno studiato gli effetti sulla accuratezza delle variazioni sistematiche di: 1) distanza dalla figura da identificare (il possibile autore di reato); 2) condizioni di luce al momento dell’evento; 3) livello di familiarità con il volto: lo studio si è infatti focalizzato sul riconoscimento di volti altamente noti (ad es. Bill Clinton e Bruce Willis) ai quali venivano aggiunti volti somiglianti ma non identificabili con personaggi noti . Riguardo alla distanza, gli autori hanno considerato una distanza compresa tra 3 e 40 metri, considerando 7 diverse distanze (3, 5, 7, 12, 20, 30 e 40 metri), come si vede nella tabella sottostante (tratta da De Jong et al., 2005), All’epoca in cui è stata condotta la ricerca (2003-2004) le facce di Clinton e di Willis erano molto note e familiari a tutti i soggetti che hanno partecipato all’esperimento. Gli autori riportano nella loro ricerca i “Valori Diagnostici” ovvero valori che quantificano il grado di affidabilità di una identificazione effettuata con le diverse combinazioni di illuminazione e distanza. I risultati della ricerca possono essere, ai fini pratici, così riassunti: - una distanza inferiore a 12 m associata ad un livello di illuminazione compreso tra 30 e 3000 lux sono condizioni ritenute accettabili per l’identificazione; - una distanza inferiore a 12 m associata ad un livello di illuminazione tra 3 e 10 lux sono condizioni ritenute discutibili; - tutte le restanti combinazioni di distanza e livello di illuminazione sono considerate inadeguate per una identificazione ad un livello di accuratezza minimo accettabile.

Gli autori affermano esplicitamente di non aver considerato quelle più estreme (ad es. combinazione della massima distanza con la minima illuminazione) in quanto “too difficult to yield any useful results” (De Jong et al. 2005), ovvero troppo difficili per poter ricavare dati utilizzabili. Inoltre secondo gli autori, cito testualmente, “[r]ecognitions of known persons under these circumstances would have to be rejected, because the diagnostic values of such recognitions are too low” (De Jong et al., 2005), ovvero i riconoscimenti di persone note in queste condizioni non dovrebbero essere accettate, dato che il valore diagnostico di tali identificazioni è troppo basso.


Dove si annida l’errore di riconoscimento?
Si consideri che la ricerca scientifica condotta nell’ambito della ricognizione ha permesso di individuare i fattori legati all’insorgenza dell’errore di riconoscimento, nonché gli accorgimenti che possono essere apportati per favorire la riduzione dell’errore.

Alcuni ricercatori (Wells e coll., 1998) sono giunti alla conclusione che il testimone venga spesso fuorviato da fattori di disturbo che intervengono durante lo svolgimento della procedura di ricognizione. In un compito di ricognizione, infatti, il testimone sembra utilizzare una tecnica denominata “giudizio relativo” (Wells, 1993): il testimone cioè tende a mettere a confronto le persone che gli vengono presentate, selezionando tra queste la persona che più assomiglia al colpevole. In questo modo si può facilmente incorrere in falsi positivi, vale a dire il testimone effettuerà comunque un riconoscimento anche in assenza del colpevole tra le persone presentategli. Questo è uno dei dati più assodati e problematici che emerge dalla letteratura: il testimone tende a scegliere tra più soggetti colui che assomiglia o gli ricorda il sospetto. Lo stesso vale per le individuazioni personali: se vi è una sola persona che si avvicina alle caratteristiche principali precedentemente fornite dal testimone, i tassi di errate identificazioni divengono più elevati.

Un ulteriore limite di questo metodo di riconoscimento è dato dal fenomeno di traslazione inconscia (Ross et al., 1994), per il quale una persona viene correttamente riconosciuta ma viene confusa la circostanza. Se un individuo è stato precedentemente visto in una foto, quell’individuo diventerà familiare; la familiarità potrebbe essere erroneamente collegata al reato piuttosto che alla fotografia. Le probabilità di un riconoscimento sbagliato, in queste situazioni, aumentano drammaticamente.

Ne è un esempio il caso di Cromedy McKinley (New Jersey), il quale nel 1993 è stato condannato per un grave reato da cui è stato scagionato nel 1999 a seguito della prova del DNA. Nel corso delle indagini, a pochi giorni dal fatto, alla vittima furono mostrate alcune foto segnaletiche e fra queste era presente il signor McKinley. In tale circostanza la donna non riconobbe alcun sospettato. Circa otto mesi dopo incontrò casualmente il signore e chiamò la polizia riconoscendolo come il colpevole del reato. È chiaro che il teste è caduto inconsciamente in un grave errore: ha riconosciuto un individuo ma poi ha equivocato la circostanza in cui lo aveva visto .

Altro aspetto da valutare quando si chiede ad un teste di riconoscere il presunto colpevole è l’utilizzo o meno di armi. Questo è dimostrato da uno studio di Steblay et al. (1992): chi assiste a crimini commessi in presenza di armi, tende a convogliare la propria attenzione sull’arma piuttosto che sul volto dell’aggressore (il cosiddetto weapon effect o effetto arma) e, in sede di ricognizione, tali soggetti hanno enormi difficoltà a riconoscere il reo. Questi autori, nella loro meta-analisi, hanno trovato una differenza significativa nell’accuratezza del riconoscimento in queste due condizioni, riportando un’accuratezza maggiore laddove l’arma non era presente

Riconoscimento di facce a distanza

giuseppe.sartori@unipd.it

Riconoscimento di persona ed errore giudiziario

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L'assassinio di Boris Nemtov sulla Piazza Rossa

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