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Il contenuto della testimonianza è vero "fino a prova contraria"

Il contenuto della testimonianza è vero "fino a prova contraria"

Con la sentenza n. 39256 del 2 novembre 2021, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito che, secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, la testimonianza della vittima, per poter essere legittimamente utilizzata come mezzo per ricostruire i fatti del caso in questione, non ha bisogno di ulteriori prove che ne confermino l'affidabilità (Cass. pen., sez. un., 19 luglio 2012, n. 41461). Al contrario, come qualsiasi altra testimonianza, è sostenuta da una presunzione di accuratezza e precisione (veridicità). Secondo questa presunzione, il giudice, pur dovendo valutare criticamente il contenuto della testimonianza e verificarne l'affidabilità, non può basare la sua convinzione sull'ipotesi che il testimone stia deliberatamente mentendo (a meno che non ci siano specifici e riconoscibili elementi che giustifichino un tale sospetto. In assenza di tali elementi, il giudice deve presumere che il testimone, fino a prova contraria, stia riferendo accuratamente ciò che conosce effettivamente).

“In questo senso, si deve ribadire il principio giurisprudenziale secondo cui, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere supportata dai cosiddetti "elementi di conferma" richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dalle persone indicate nel comma 3 dell'art. 192 c.p.p., il giudice deve limitarsi a verificare l'affidabilità intrinseca della testimonianza stessa, partendo dal presupposto che, fino a prova contraria, il testimone riferisce fatti oggettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali “(Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 2014, n. 27185).

Inoltre, ma in un contesto correlato, l'espressione "fino a prova contraria" non significa che la testimonianza non possa essere ignorata a meno che non sia positivamente dimostrato il falso, o l'errore di percezione o di memoria del testimone, ma solo che devono esistere elementi positivi che rendano obiettivamente plausibili una o l'altra di queste ipotesi (Cass. pen., sez. I, 2 giugno 1993, n. 7568).

Pertanto, in assenza di motivi diversi il giudice deve presumere che il testimone riferisca accuratamente ciò che conosce effettivamente e quindi deve limitarsi a verificare eventuali incongruenze con altre prove

Inoltre, le dichiarazioni di un testimone (anche se si tratta della vittima), per essere utilizzate in modo positivo dal giudice, devono essere credibili, oltre a riguardare fatti di diretta conoscenza e specificamente indicati. Di conseguenza, a differenza di altre fonti di conoscenza, (come le dichiarazioni fatte da co-imputati o da imputati in reati correlati,) queste non necessitano di conferme esterne, il cui eventuale utilizzo serve solo a valutare la credibilità del testimone (Cass. pen., sez. III, 26 agosto 1999, n. 11829). Il fatto che la testimonianza della vittima, quando ha un interesse personale nella determinazione dei fatti, debba essere sottoposta a un controllo più approfondito e rigoroso sulla sua credibilità soggettiva e l'affidabilità intrinseca del racconto (Cass. pen., sez. un., n. 41461/2012, cit.) non giustifica un giudizio pregiudiziale di inaffidabilità della testimonianza stessa (esplicitamente vietato come regola di giudizio).

In ogni caso, è importante ricordare che il giudizio sull'affidabilità del testimone è di natura fattuale, poiché riguarda il comportamento della persona interrogata: di conseguenza, può essere effettuato solo attraverso il dibattito processuale, mentre è precluso in sede di legittimità, soprattutto quando il giudice di merito - come nel caso in questione - ha fornito una spiegazione plausibile della sua analisi delle prove (Cass. pen., sez. III, 5 ottobre 2006, n. 41282).

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giuseppe.sartori@unipd.it

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